L`Opera dei Pupi

Oral and Spiritual Patrimony of Mankind  U.N.E.S.C.O. 2001

 

 

 

 

ullaegino©UllaSiracusa



L’origine del teatro dei pupi è molto discussa da critici e studiosi; le testimonianze più “antiche”, che risalgono agli studi dall’etnografo Giuseppe Pitrè, documentano, nella prima metà dell’Ottocento, l’esistenza di pupi con armature molto rudimentali ed incomplete. Alcuni studiosi del Settecento ritenevano che l’abilità dei pupari discendesse dalla maestria nel costruire e far muovere marionette di alcuni siracusani attivi già al tempo di Socrate e Senofonte. All’inizio del Seicento, Cervantes nel suo Don Chisciotte descrive un marionettista che rappresenta uno spettacolo di cavalieri i cui interpreti sono Don Gaiferos, nipote di Carlo Magno, Re Marsilio, Orlando, la principessa Melisendra…
Esistono quattro distinte tradizioni dell’opra: quella “palermitana” diffusa nella Sicilia occidentale, quella “catanese” diffusa nella Sicilia orientale e in Calabria, quella “napoletana”, diffusa in Campania e quella pugliese, che differiscono per qualche aspetto nella meccanica, nella figurazione e, pur nella fondamentale unità del repertorio, per qualche soggetto particolare. Una forma analoga di teatro popolare esiste anche in Belgio e nel nord della Francia. La sua nascita si ricollega ad un emigrato di origine toscana, di professione figurista (modellatore di figure in gesso), il quale giunse a Liegi nel 1854.

L’opera dei pupi siciliani ha due matrici fondamentali: quella del racconto orale che i contastorie, novelli aedi, facevano nelle piazze e quella gestuale della danza con le spade, antica rappresentazione di combattimento, con movimenti ripetuti e ritmati, che nella cultura contadina erano legati ai riti di fertilità. Nelle feste popolari questa danza si è mantenuta in alcuni paesi come ad es. la danza del Tataratà di Casteltermini in provincia di Agrigento. Il secolo Ottocento fu un rinverdire di epopea medievale, di queste Chanson de Geste che secoli prima i jongleurs francesi avevano portato nell’Italia meridionale e in Sicilia. Per secoli si era tramandato il racconto delle gesta degli eroi di Carlo Magno, della Chanson de Roland, prendendo forma sia nei cantàri medievali che nei poemi cavallereschi del Quattro e Cinquecento. Nell’Ottocento riemerge questa memoria. Il racconto orale delle piazze si trasferisce in teatro, prende corpo e movenza attraverso i pupi. Questo remake (ripresa) popolare, ci dicono gli etnologi, corrisponde a quello dell’opera lirica delle classi benestanti, ed è determinato dalla volgarizzazione e dalla diffusione della letteratura cavalleresca: I Reali di Francia e il Guerin Meschino di Andrea da Barberino, il Morgante di Pulci, l’Orlando Innamorato del Boiardo, l’Orlando Furioso dell’Ariosto, la Gerusalemme Liberata del Tasso.

La prima e la seconda crisi

Il cuntista, ovvero il narratore professionista del ciclo carolingio e di storie epico-cavalleresche, è stato probabilmente il veicolo principale attraverso cui l’opera dei pupi ha derivato i soggetti da rappresentare nella sua forma ciclica. Da questi il puparo ha appreso la tecnica di interrompere il racconto in un momento cruciale, suddividendo la storia in infinite puntate. E’ difficile individuare l’origine del cunto, alcuni studiosi trovano un legame tra la metrica del cunto con quella degli antichi aedi e successivamente, attraverso i cantori, i giullari e i menestrelli - che giravano nelle corti durante il Medioevo - con quella latina.

Gli studiosi convergono tutti nell’affermare che sono state proprio le storie raccontate dai cuntisti ad ispirare la nascita del pupo armato.
Il momento aureo dell’opera dei pupi è stato tra il 1840 e 1890. Attorno a questo mondo fantastico si muovevano artigiani costruttori, sarti, pittori, cesellatori, sbalzatori, scultori… erano una moltitudine di mestieri complementari al teatro dei pupi.
E’ in questo periodo che le consuetudini si rafforzano e le piccole innovazioni tecniche si diffondono, le armature sono sempre più riccamente arabescate e costose, i costumi sempre più accurati, le pitture sempre più ricercate. La prima crisi del teatro dei pupi la si può riscontrare intorno agli anni trenta, in concomitanza con la diffusione del cinema; tuttavia fu una crisi che si superò facilmente, poiché gli opranti continuarono a moltiplicarsi numerosi. Tutti avevano il loro pubblico e ciascuno si distingueva per caratteristiche e doti differenti, chi per le marionette più ricercate, chi per la recita più appassionata, chi per la manovra straordinariamente perfetta…
La seconda grande crisi avvenne intorno agli anni cinquanta, in concomitanza con l’avvento della televisione, ma certamente non solo per questa. Il declino coincide con un diffuso disinteresse per questa forma di teatro popolare e per il suo repertorio, per il diniego verso un patrimonio ideologico, un modello e un codice di comportamento in cui la gente non vi si riconosce più, intenta come era a superare le difficoltà economiche a cui la seconda guerra mondiale aveva costretto.
Si fa coincidere l’opera dei pupi con il passato, un passato di stenti, austero, da superare ad ogni costo e per le classi più umili un passato da dimenticare.
I quartieri della Città storica si cominciano a spopolare, molti teatrini vengono smembrati e svenduti, i figli dei pupari si orientano per un altro mestiere, si arrendono valenti pupari e con loro pittori e artigiani straordinari Insomma il mondo dell’opra si spezza e l’inettitudine della politica culturale disperde i pupari.
Nello scempio generale venutosi a creare, solo Giacomo Cuticchio riesce a coinvolgere nel suo lavoro la famiglia ma soprattutto il figlio maggiore, Mimmo, che essendo il più grande dei maschi, lo segue più degli altri nei paesini della Sicilia, dove Giacomo continua a rappresentare il lungo ciclo della Storia dei Paladini di Francia sera dopo sera, fino al 1969.
Mimmo Cuticchio, figlio maggiore di Giacomo, si colloca in un rapporto di contrasto critico con la situazione che si venne a creare e da autentico figlio d’arte, giunse alla salutare ribellione che oggi gli consente di essere l’ultimo maestro puparo, ponte di collegamento tra tradizione e innovazione, in grado di incuriosire ed interessare le giovani generazioni.
Mimmo Cuticchio nasce nel 1948, quando il padre Giacomo, puparo “camminante” (girovago) si stabilisce a Gela (CL) per qualche stagione.
La sua infanzia è segnata dal mondo fantastico dell’ “opra”, ma la giovinezza non è un idillio fiabesco. Egli pur ricevendo un’educazione improntata ad un assoluto rispetto per la tradizione, si trova ad affrontare una realtà sempre più estranea ai valori della cultura popolare.
Le ragioni che segnano la crisi della sua giovinezza vanno appunto ricercati nella percezione di nuovi possibili mondi dell’esperienza.
In quanto figlio di oprante vive nel mondo dei pupi e, aiutato dal padre, attraversa le tappe del consueto apprendistato dell’ “opra”, da suonatore di pianino ad aiutante di palcoscenico, dalla recitazione della voce dell’angelo (prima recitazione che il puparo fa fare ai propri figli) a combattente di terza quinta, sino alla conquista della prima quinta di fronte al puparo che dirige lo spettacolo. L’apprendistato avviene naturalmente, quasi per gioco, in un ambiente saturo di storie cavalleresche e rigorosamente organizzato.
Ma questa atmosfera di rigida disciplina, se da un lato rappresenta un rigoroso apprendistato, ispirato alle migliori tradizioni, dall’altro non consente diritto di innovazioni.
Nel 1963 partecipa al VI Festival dei Due Mondi di Spoleto; Nel 1965 segue il padre per un giro nei teatri italiani per gli operai dell’Italsider toccando numerose città, da Taranto a Trieste, da Genova a Bagnoli, toccando tutti i porti d’talia. Nel 1967 dopo l’esperienza eseguita a Parigi, all’Ambasciata Italiana decide di staccarsi dall’ombellico paterno restando per alcuni mesi nella capitale francese a dirigere un teatrino di pupi al Boulevard St. Michel presso la Cave Libraire 73, nel quartiere latino.
Nel 1970 si trasferisce a Roma per un’esperienza nel campo cinematografico e televisivo. Qui incontra l’attore Aldo Rendine, direttore dell’Accademia Pietro Sharoff, da lui prende lezioni di dizione, fonetica e recitazione ma, dopo un anno, sarà l’attore stesso che spingerà il giovane allievo siciliano a continuare la tradizione dei pupi e Mimmo ritorna a Palermo, ma il padre ormai fa sempre lo stesso spettacolo per il pubblico composto solo da turisti.
L’insofferenza per la disciplina paterna va oltre il conflitto generazionale, Mimmo avverte la necessità di un altro maestro, Peppino Celano, approdo a una scelta consapevole.
L’apprendistato presso Celano dura solo tre anni, sino alla morte del vecchio puparo e cuntista, ma prima della sua scomparsa, grazie alla dedizione con cui Mimmo lo seguiva, riesce ad apprendere le tecniche del cunto. Dopo la morte di Celano, tutta l’attenzione di Mimmo è assorbita dal teatrino dei pupi che apre il 28 luglio 1973.
L’apertura del Teatro di Via Bara all’Olivella è un fatto coraggioso che permette al puparo di prendere le sorti dell’Opera dei pupi nelle proprie mani. Egli trasporta, infatti, i suoi spettacoli nel contesto nazionale ed internazionale del “teatro sperimentale” e d’autore, prendendo le distanze da quel genere fatto ad uso e consumo dei turisti, ne consolida la struttura evitando così la dipendenza da un’economia governata da criteri totalmente estranei all’opera dei pupi.

Figli d’Arte Cuticchio
Nel 1977 fonda l’Associazione “Figli d’Arte Cuticchio” che accorpa la compagnia omonima. Per la prima volta una compagnia di pupari instaura un rapporto con il Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Questo permette un ulteriore sviluppo e qualificazione dell’attività che si sviluppa sempre di più in quei settori dell’artigianato che tradizionalmente affiancavano l’opera dei pupi ed ai quali i pupari si sono sempre appoggiati; le permette di porsi come unità produttiva assolutamente autosufficiente, in grado di produrre spettacoli, controllarne tutte le fasi, dallo sbalzo delle armature, all’intaglio e alla scultura del legno per le teste e i corpi, alla pittura di scene e cartelli, alla realizzazione dei costumi.
La compagnia diretta da Mimmo, salda tre principali linguaggi della comunicazione teatrale: il recupero delle tecniche tradizionali dei pupi e del cunto, la ricerca e la sperimentazione; la sua sopravvivenza artistica è dovuta alla ricerca di un suo spazio espressivo, che valorizza al massimo le tecniche dei pupari e dei contastorie, linguaggi tutt’altro che esauriti o superati, per tentare un teatro di verità e di poesia
Questa ricerca durata più di trent’anni, oggi si è trasformata in una terra operosa, che trova nuova linfa nella reinvenzione dell’Opra e nella sua commistione con altri generi, dove pupi, pupari, manianti, combattenti, attori e paladini si ritrovano sotto le stelle del teatro.
Oltre all’attività di produzione, la compagnia è impegnata anche nella promozione.
Organizza un festival teatrale intitolato “La Macchina dei Sogni”, giunto al suo ventunesimo anno di vita che negli anni è riuscito ad instaurare rapporti di feconda collaborazione con artisti, operatori, istituzioni culturali, dando vita a percorsi creativi, scambi, momenti produttivi e formativi, riuscendo a recepire ed accogliere ciò che di nuovo e positivo si muove nel mondo dell’arte e dello spettacolo.
Il 18 maggio 2001 l’opera dei pupi viene riconosciuta dall’UNESCO “patrimonio orale e immateriale dell’Umanità”.
Perché si ottenesse questo riconoscimento, unico nel panorama culturale europeo, si è dovuto attraversare e accettare più di una sfida, in primo luogo la decostruzione poi la ricostruzione.
L’opera dei pupi non è più ciò che è stata un tempo, non ha più il suo pubblico tradizionale. D’altro canto ogni fissazione in un periodo o in un altro della sua storia è inconcepibile, e allo stesso modo è sicuramente inoperante ogni fanatismo sulla trasmissione passiva. Da tempo si sentiva l’esigenza di tramandare quest’arte, che una volta aveva schiere di allievi o di figli di pupari, in modo più organico.
Per trasmettere questo teatro è stato necessario avvicinare, affascinare i giovani non solo con gli spettacoli ma con tutta una serie di iniziative che disegnano i contorni stellati di un’arte ancora viva e fuori dai compromessi. La creazione, sempre ad opera di Mimmo Cuticchio, della Scuola per pupari e cuntisti aperta nel 1997 è una tappa importantissima nell’evoluzione del teatro dei pupi. La formazione di giovani dalle molteplici competenze (pittori, scultori, scenografi, manovratori) e l’esigenza di un apprendistato continuo e costante sono i pilastri di un insegnamento artistico che non può permettersi cedimenti. Gli allievi, di età compresa tra i 18 e i 30 anni, vengono preparati agli imperativi di “un’arte completa” e l’insieme del progetto prende fisicamente senso alla fine del terzo anno di insegnamento, quando gli allievi potranno prendere parte ad uno spettacolo, diretto da Mimmo Cuticchio.
Il progetto, venuto alla luce sotto i migliori auspici, si avvale della collaborazione di prestigiose istituzioni culturali di livello europeo come l’International School of Theater Anthropology, l’Ecole Supérieure Nazionale del Arts de la Marionette di Charleville Mezièrès, il Corso di Laurea in DAMS e Dipartimento della Comunicazione Letteraria e dello Spettacolo dell’Università di Roma Tre, le Cattedre di Storia del Teatro e di Drammaturgia dell’Università de L’Aquila, l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma.